1990–1999
Alcune lezioni che imparai da ragazzo
Aprile 1993


Alcune lezioni che imparai da ragazzo

La risposta alle nostre difficoltà si trova nel seguire il semplice vangelo di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che portò in questo mondo l’amore di Suo Padre.

Ritengo di dover dire alcune parole ai ragazzi. Voi, uominipiù anziani, potete ascoltare o dormire. Quale cosa stupenda è essere giovani in questo periodo della storia della Chiesa e della storia del mondo! Sicuramente questa è una grande èra illuminata. È un tempo diverso da ogni altro. Mai in passato vi sono state tante scoperte scientifiche. Mai in passato vi sono state maggiori possibilità di acquisire un’istruzione. Mai in passato vi sono state tante occasioni di servire nella Chiesa. Sono quasi geloso di voi; ma poi cambio idea, poiché penso alle molte difficoltà tra le quali vivete. Da ogni parte siete circondati da difficili tentazioni. È facile per i vecchi tenere lezione ai giovani. Quindi, invece di tenervi una lezione, voglio fare qualcosa che non ho mai fatto in passato. Se mi consentite di soddisfare un piccolo capriccio, voglio parlarvi di alcune delle lezioni che imparai quand’ero ragazzo.

Sono cresciuto qui a Salt Lake City; ero un ragazzo normale, pieno di lentiggini. Avevo un buon padre e una buona madre. Mio padre era un uomo di vasta istruzione e grandi talenti. Era rispettato nella comunità. Amava la Chiesa e i suoi dirigenti. Il presidente Joseph F. Smith, che era presidente della Chiesa durante la mia infanzia, era uno dei suoi eroi. Egli amava anche il presidente Heber J. Grant, che diventò presidente della Chiesa nel 1918.

Mia madre era una donna di talento, una donna meravigliosa. Era insegnante, ma quando si sposò lasciò il lavoro per diventare moglie e madre. Ai nostri occhi ella ebbe un grande successo.

Vivevamo in quella che pensavo fosse una grande casa nel Primo Rione. Aveva quattro stanze al piano terreno: cucina, sala da pranzo, soggiorno e biblioteca. Al primo piano c’erano quattro camere da letto. La casa era situata in un esteso appezzamento di terreno a un crocevia. C’era un grande prato, con molti alberi che lasciavano cadere milioni di foglie, e un’immensa mole di lavoro da svolgere continuamente.

Durante la mia prima fanciullezza, c’era una stufa in cucina e una nella sala da pranzo. In seguito fu installata una caldaia, che noi consideravamo una cosa meravigliosa. Ma aveva un vorace appetito di carbone e non c’era un sistema automatico per rifornirla. Il carbone doveva essere immesso manualmente e regolato ogni sera.

Imparai una grande lezione da quel mostro di caldaia: se volete vivere al caldo, dovete lavorare di pala.

Mio padre aveva l’idea che i suoi figli dovevano imparare a lavorare, d’estate come d’inverno, così acquistò una fattoria di due ettari, che piano piano crebbero sino a dodici. Vi passavamo l’estate e tornavamo in città alla riapertura delle scuole.

Avevamo un grande frutteto, e gli alberi dovevano naturalmente essere potati ogni primavera. Mio padre ci portò a dei corsi di potatura, tenuti da esperti della facoltà di agronomia dell’università. Imparammo un grande principio: che si può praticamente stabilire la quantità e la qualità della frutta che si raccoglie a settembre dal modo in cui si pota a febbraio. Si doveva lasciare spazio fra i rami, in modo che i frutti potessero godere della luce del sole e dell’aria. Inoltre imparammo che i rami nuovi producono i migliori frutti. Questo principio ha molte applicazioni nella nostra vita.

Ci ammalavamo allora come ci ammaliamo oggi. Anzi, penso che eravamo più spesso ammalati allora che oggi. A quei tempi il latte che bevevamo non era pastorizzato. Naturalmente non avevamo la lavastoviglie; ognuno di noi a turno faceva le funzioni di questo elettrodomestico del nostro tempo. Quando veniva diagnosticato che avevamo il morbillo o la varicella, il medico ne informava il dipartimento di igiene e sanità della contea, e un uomo veniva a mettere un cartello in tal senso alla finestra che dava sulla strada, per avvertire chiunque volesse venire a visitarci che lo faceva a suo rischio e pericolo.

Se la malattia era vaiolo o difterite, il cartello era di un brillante color arancio con lettere nere. Diceva, in effetti: «Rimanete lontani da questa casa».

Imparai una cosa che ho sempre ricordato: si deve stare all’erta per vedere i segnali di pericolo e rimanere lontani.

Frequentavo la Scuola Hamilton, che era un grosso edificio a tre piani. Era un palazzo vecchio e scomodo alla luce delle norme di oggi, ma imparai che non era l’edificio che contava, ma gli insegnanti. Quando il tempo lo consentiva, la mattina ci radunavamo davanti alla scuola per proclamare il nostro impegno di lealtà alla bandiera e marciavamo ordinatamente nelle nostre aule.

Per andare a scuola ci vestivamo di tutto punto e dovevamo avere un aspetto pulito e ordinato. I ragazzi indossavano camicia e cravatta e pantaloni corti. Indossavamo lunghe calze nere che arrivavano fin sopra il ginocchio. Erano di cotone e si consumavano presto, sì che dovevano essere rammendate frequentemente. Imparammo a rammendarle, poiché era impensabile andare a scuola con un buco nelle calze.

Imparammo grandi lezioni sull’importanza della pulizia e della cura della persona, e ne ho tratto beneficio per tutta la vita.

Il cruccio principale della mia insegnante dei primi anni era il mio amico Louie. Era afflitto da quello che gli psicologi oggi chiamerebbero una fissazione ossessiva. Seduto in classe, non faceva che masticare la sua cravatta sino a quando diventava bagnata e sfigurata. L’insegnante lo rimproverava.

Louie infine diventò un uomo ricco, e io imparai a non sottovalutare mai il potenziale di un ragazzo che riesce a fare qualcosa nella vita, anche se continua a masticarsi la cravatta.

Col passare degli anni finalmente raggiunsi il sesto anno in quella scuola.

I miei amici rimasero praticamente gli stessi durante tutti quegli anni. A quei tempi le persone non si trasferivano così spesso come oggi. Uno dei miei amici era Lynn. Naturalmente questo non è il suo vero nome. Si cacciava sempre nei guai. Sembrava che non riuscisse a concentrarsi sulle materie di studio, particolarmente quando arrivava la primavera e le cose erano più belle fuori che dentro.

Miss Spooner, la nostra insegnante, sembrava avercela con Lynn. Una mattina verso le undici Lynn disturbò lo svolgimento della lezione, e Miss Spooner gli disse di andarsi a chiudere in un armadio sino a quando ella lo avesse liberato. Lynn obbedientemente entrò nell’armadio e si chiuse la porta alle spalle. Quando suonò la campana delle dodici, Lynn uscì mandando giù le ultime briciole del pranzo di Miss Spooner. Non riuscivamo a smettere di ridere, tutti meno Miss Spooner, e questo naturalmente peggiorò le cose. Lynn continuò a fare il buffone per tutta la vita. Non imparò mai, sino a quando fu troppo tardi, che la vita è una cosa seria, in cui si devono fare scelte serie con molta cura e con molte preghiere.

L’anno dopo ci iscrivemmo alle medie. Ma l’edificio non era in grado di accogliere tutti gli studenti, così la nostra classe fu rimandata nella vecchia Scuola Hamilton.

Ci sentimmo offesi. Eravamo furiosi. Avevamo trascorso sei anni infelici in quell’edificio, e pensavamo di meritare qualcosa di meglio. I ragazzi si riunirono dopo le lezioni. Decidemmo che non avremmo tollerato quel genere di trattamento. Eravamo decisi a fare sciopero.

Il giorno dopo non ci facemmo vedere. Ma non avevamo nessun posto in cui andare. Non potevamo rimanere a casa, poiché le nostre mamme avrebbero cominciato a fare domande. Non pensammo di andare in città a vedere uno spettacolo poiché, d’altra parte, non avevamo i soldi per farlo. Non pensammo di andare nel parco: temevamo di essere veduti da Mr. Clayton, il funzionario della scuola incaricato di impedire ai ragazzi di marinare le lezioni. Non pensammo di nasconderci dietro il recinto della scuola e di raccontare storielle di dubbio gusto, poiché non ne conoscevamo. Naturalmente a quei tempi non sapevamo nulla della droga o di altre cose simili. Non facemmo che girovagare qua e là e sprecare la giornata.

Il mattino dopo il direttore, Mr. Stearns, stava all’ingresso della scuola per salutarci. Il suo aspetto era severo come il suo nome in inglese. Ci mosse il temuto rimprovero, poi ci informò che non potevamo tornare a scuola senza una giustificazione scritta dei nostri genitori. Quella fu la nostra prima esperienza di una serrata. Scioperare, egli disse, non era il modo di risolvere un problema. Cisi aspettava che fossimo cittadini responsabili e, se avevamo di che lamentarci, potevamo andarlo a trovare nel suo ufficio e parlarne.

C’era una sola cosa che potevamo fare, ossia tornare a casa e ottenere la giustificazione scritta.

Ricordo di essere tornato a casa a testa bassa e a passi lenti. Mia madre mi chiese cosa non andava. Glielo dissi. Dissi che avevo bisogno della giustificazione. Ella la scrisse. Era molto breve. Conteneva il più duro rimprovero che mi avesse mai rivolto. Ecco le sue parole:

«Caro Mr. Stearns,

la prego di scusare l’assenza di Gordon di ieri. La sua azione è stata semplicemente un impulso a seguire la folla».

La firmò e me la consegnò.

Ritornai a scuola, arrivando insieme ad alcuni altri ragazzi. Consegnammo le nostre giustificazioni a Mr. Stearns. Non so se le lesse, ma io non dimenticai mai la nota di mia madre. Anche se ero stato tra i fautori dell’azione intrapresa, promisi a me stesso che non avrei mai fatto nulla basandomi solo sulla tendenza a seguire la folla. Decisi proprio allora che avrei preso le decisioni basadomi su un giudizio di merito e sulle norme che ero tenuto a osservare, senza lasciarmi spingere in una direzione o nell’altra dai miei compagni.

Quella decisione mi fu molto utile in numerose occasioni; qualche volta mi consentì di uscire senza danni da situazioni incresciose. Fu una decisione che mi ha impedito di fare cose che, nella peggiore delle ipotesi, mi avrebbero causato gravi danni e lesioni e, nella migliore, mi avrebbero tolto il rispetto di me stesso.

Quand’ero ragazzo mio padre teneva un cavallo e un calesse. Poi, un caldo giorno d’estate del 1916, accadde una cosa meravigliosa. Fu una cosa indimenticabile. Quando tornò a casa quella sera, papà era a bordo di una splendente nuova autovettura Ford modello T di color nero. Era una macchina meravigliosa, anche se oggi sarebbe considerata rudimentale e poco affidabile. Per esempio non aveva l’avviamento automatico: si doveva girare una manovella. Quando si deve girare la manovella per avviare un’automobile, si imparano subito alcune cose importanti. Se non si ritarda l’accensione, la manovella parte insieme al motore e può spaccarci la mano. Quando pioveva, i fili si bagnavano e non c’era modo di avviarla. Da quell’automobile imparai poche semplici cose su come prevenire le difficoltà. Un piccolo telone sul cofano manteneva asciutti i fili. Facendo un po’ di attenzione nel ritardare l’accensione si poteva avviarla con la manovella senza rimetterci la mano.

Ma la cosa più interessante erano le luci. L’automobile non aveva batterie. L’unica elettricità proveniva da quello che era chiamato magnete. La quantità di energia generata dal magnete dipendeva dalla velocità del motore. Se il motore girava velocemente, le luci splendevano. Se il motore rallentava, le luci diventavano di un giallo malaticcio. Imparai che se volevamo vedere la strada davanti a noi, dovevamo mantenere il motore su di giri.

La stessa cosa avviene, ho scoperto da allora, nella nostra vita. La laboriosità, l’entusiasmo e il duro lavoro portano a un progresso illuminato. Dovete rimanere in piedi e continuare a muovervi se volete avere una luce che illumini la vostra vita. Ho ancora il tappo del radiatore di quella vecchia modello T del 1916. Eccolo. È un ricordo delle lezioni che imparai settantasette anni fa.

Da quell’automobile ho imparato anche altre cose. Ora vado in giro su un’automobile di produzione attuale. È silenziosa e potente. Ha ogni comodità, incluso l’impianto di riscaldamento e il condizionatore d’aria. Quale differenza c’è tra quella vecchia Ford modello T nera del 1916, rigida e rumorosa, e le automobili di oggi? La differenza è dovuta al lavoro di migliaia di capaci uomini e donne impegnati che per due generazioni hanno programmato, studiato, sperimentato e collaborato insieme per realizzare tanti miglioramenti.

Ho imparato che, quando le persone di buona volontà lavorano in collaborazione in maniera onesta e seria, non c’è limite a quello che riescono a fare.

Nel 1915 il presidente Joseph F. Smith chiese ai membri della Chiesa di tenere la serata familiare. Mio padre disse che anche noi l’avremmo fatto: avremmo riscaldato il soggiorno, dove stava il piano a coda della mamma, e avremmo fatto quello che ci aveva chiesto il presidente della Chiesa.

Noi bambini non eravamo certo attori. Potevamo fare un mucchio di cose insieme quando giocavamo, ma in quanto a cantare un assolo davanti agli altri era come chiedere al gelato di non sciogliersi quando veniva messo nel forno. All’inizio non facevamo che ridere e dire delle battute sull’esibizione degli altri familiari. Ma i nostri genitori insistettero. Cantavamo insieme e pregavamo insieme. Ascoltavamo in silenzio mentre la mamma leggeva le storie della Bibbia e del Libro di Mormon. Papà ci raccontava storie della sua vita. Ricordo ancora una di esse. L’ho ritrovata di recente nello sfogliare un libro che egli aveva pubblicato diversi anni fa. Ascoltatela:

«Un ragazzo e un suo amico più giovane camminano lungo una strada che attraversa un campo. Vedono al margine della strada una vecchia giacca e un paio di scarpe da uomo consumate e, in lontananza, il proprietario che lavora nel campo.

Il ragazzo più piccolo suggerisce di prendere le scarpe e di nascondersi e vedere la perplessità del proprietario quando torna sul posto.

Il ragazzo più grande non ritiene che si tratti di una buona idea. Dice che il proprietario deve essere una persona molto povera. Così, dopo averne parlato, dietro suo suggerimento decidono di effettuare un altro esperimento. Invece di nascondere le scarpe, mettono un dollaro d’argento in ognuna di esse e si nascondono per vedere cosa farà il proprietario quando scopre il denaro.

Poco dopo l’uomo ritorna dal campo, si mette la giacca, infila un piede nella scarpa, sente qualcosa di duro, lo estrae e vede che è un dollaro d’argento. Sul suo volto si manifestano stupore e sorpresa. Guarda di nuovo il dollaro, lo riguarda, si gira per vedere se c’è qualcuno, poi prova a mettersi l’altra scarpa; quando, con sua grande sorpresa, trova un altro dollaro, quasi sta per venir meno … S’inginocchia e pronuncia ad alta voce una preghiera di ringraziamento, nella quale parla della malattia di sua moglie e dei suoi figli che soffrono la fame … Ringrazia fervidamente il Signore per questa ricchezza proveniente da mani sconosciute e invoca le benedizioni del cielo su coloro che gli hanno dato un aiuto tanto necessario.

I ragazzi rimangono nascosti sino a quando l’uomo scompare all’orizzonte. Sono commossi dalla sua preghiera e si sentono immensamente felici … Mentre proseguono per il loro cammino, l’uno dice all’altro: ‹Non ti senti contento di quello che hai fatto?›» (adattato da Bryant S. Hinckley, Not by Bread Alone, Salt Lake City: Bookcraft, 1955, pag. 95).

Da quelle semplici e intime riunioni tenute nel soggiorno della nostra vecchia casa è scaturito qualcosa di indescrivibile e di meraviglioso. Crebbe l’amore per i nostri genitori. Crebbe l’amore reciproco tra noi fratelli e sorelle. Crebbe il nostro amore per il Signore. Crebbe in noi la gratitudine per le cose semplici e belle. Questi sono i frutti della diligenza dei nostri genitori nel seguire il consiglio del presidente della Chiesa. Da quelle riunioni imparai qualcosa di estremamente importante.

In quella vecchia casa imparammo che nostro padre amava nostra madre. Quella fu un’altra delle grandi lezioni che imparai da ragazzo. Non ricordo di averlo mai sentito parlare con lei o di lei senza la massima cortesia. La incoraggiava nelle sue attività personali nella Chiesa, nel vicinato, nella comunità. Ella era dotata di molto talento, ed egli la esortava a farne uso. Rendere felice la vita di lei era il suo costante intendimento. Noi li consideravamo persone uguali, colleghi che lavoravano insieme e si amavamo e si apprezzavano reciprocamente, come amavano ed apprezzavano ognuno di noi.

Anch’ella lo incoraggiava. Faceva tutto il possibile per renderlo felice. All’età di cinquant’anni fu colpita dal cancro. Egli era molto sollecito nel provvedere a ogni sua necessità. Ricordo le nostre preghiere familiari, con le sue dolorose invocazioni e il nostro pianto.

Naturalmente a quel tempo non c’erano assicurazioni mediche. Egli avrebbe speso tutto quello che aveva per curarla. E infatti spese davvero molto. La portò a Los Angeles, in cerca di migliori cure mediche. Ma tutto fu vano.

Questo è avvenuto sessantadue anni fa, ma ricordo con chiarezza la disperazione di mio padre quando scese dal treno e salutò i suoi figli addolorati. Camminammo solennemente lungo il marciapiede verso il bagagliaio, da dove i dipendenti dell’impresa delle pompe funebri stavano scaricando la cassa dove ella era rinchiusa. In quella triste occasione imparammo a conoscere meglio la grande capacità di amare di mio padre. E quello ebbe un duraturo effetto su di me.

Imparai a conoscere anche qualcosa della morte – l’assoluta devastazione che colpisce bambini che perdono la madre – ma anche una pace senza dolore: la certezza che la morte non può essere la fine dell’anima.

A quei tempi non parlavamo apertamente dell’amore che ci univa gli uni agli altri. Non ce n’era bisogno. Sentivamo quella sicurezza, quella pace e quella tranquilla forza che si sente nelle famiglie che pregano insieme, lavorano insieme e si aiutano reciprocamente.

«Onora tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano prolungati sulla terra che l’Eterno, l’Iddio tuo, ti dà» (Esodo 20:12). Sin da ragazzo imparai a credere in questo divino comandamento.

Penso che esso sia davvero un grande comandamento del Signore. Se fosse osservato più diffusamente, vi sarebbe meno infelicità nelle case della gente. Invece di critiche, accuse, discussioni, vi sarebbero gratitudine, rispetto e amore tranquillo.

Mio padre se n’è andato da tanti anni. Sono diventato anch’io padre, nonno e bisnonno. Il Signore è stato molto buono. Ho avuto la mia parte di delusioni, di fallimenti e di difficoltà. Ma in generale la mia vita è stata molto buona. Ho cercato di viverla con entusiasmo e gratitudine. Ho conosciuto tanta, tanta felicità. Ritengo che le radici di tutto questo siano state piantate nella mia fanciullezza e nutrite nella casa, nella scuola e nel rione in cui sono cresciuto, in cui ho imparato semplici ma importanti lezioni di vita. Non potrei esserne più grato.

Il mio cuore si addolora e soffro, quando vedo la tragedia di tante famiglie divise, di tante case in cui il marito non sembra sapere come trattare sua moglie, di case in cui i figli sono maltrattati e crescono condizionati per maltrattare un’altra generazione. Nessuna di queste tragedie è necessaria. So che non lo è. La risposta alle nostre difficoltà si trova nel seguire il semplice vangelo di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che portò in questo mondo l’amore di Suo Padre.

Fratelli, spero che mi perdonerete se vi ho parlato di cose così strettamente personali. Non sapevo come dire ciò che volevo dire senza fare così.

Giovani, fate ciò che è giusto e ne godrete i frutti. Scegliete il bene in ogni occasione.

Padri, siate dei bravi uomini, in modo che le vostre mogli parlino di voi con amore e gratitudine e i vostri figli vi ricordino con gratitudine eterna. Così prego umilmente nel nome di Gesù Cristo. Amen. 9